venerdì 29 marzo 2024    Registrazione  •  Login
 
   
 
   
   
   
 
 
     
 
   Documenti Riduci
 
Stampa    
     
     
 
   Pagine della redazione: il testamento biologico____________________________ Riduci

Testamento biologico e accanimento terapeutico

 

E' evidente come il problema del consenso alle cure vitali abbia senso soltanto nella nostra epoca nella quale il continuo progresso scientifico nel campo della medicina, la messa a punto di terapie sempre più efficaci e l'applicazione alle cure di tecnologie sempre più sofisticate consentono di trattare condizioni che sarebbe stato impensabile affrontare fino a poco tempo fa, mantenendo in vita per periodi molto prolungati chi sarebbe stato altrimenti destinato a morte, con l'effetto quindi di prolungare artificialmente la sopravvivenza. In questo modo lo stesso concetto di “morte naturale” ha confini sempre più sfumati ed il suo significato è sempre più incerto. In questo contesto è frequente il conflitto tra la necessità della cura e la naturalezza della fine della vita individuale. Parallelamente al conflitto sorge il problema di chi possa e debba prendere decisioni terapeutiche nella prospettiva di “fine vita” e quello di individuare fino a che punto è consentito spingersi nel prolungare artificialmente una vita.

 

 

Proprio l’aumento delle  possibilità terapeutiche e la disponibilità sempre maggiore applicazioni tecnologiche alla diagnosi ed alla terapia provocano la possibilità di eccedere nell’uso delle terapie su chi non ne può trarre giovamento. Nasce quindi il concetto di “accanimento terapeutico” che diventa estremamente rilevante per la definizione degli aspetti pratici legati al testamento biologico. Non esiste tuttavia una definizione operativa che ci informi su che cosa esattamente sia compreso nell’accanimento terapeutico, né tanto meno una “previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico” (Tribunale di Roma, Sezione Prima Civile, Ordinanza 15 – 16 dicembre 2006).

Il contesto in cui si suole parlare di accanimento terapeutico è quello dei malati con prognosi infausta a breve termine, ma in questo ambito possono essere comprese pratiche terapeutiche estremamente diverse che siano inefficaci ad evitare il “naturale” termine della vita oppure tali che possano condurre ad una sopravvivenza dolorosa e gravosa o ancora che possano condizionare l’insorgenza di ulteriori nuove patologie.

I tentativi di definizione sono stati diversi.Per il Comitato Nazionale per la Bioetica l’accanimento terapeutico è : “Trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”, sottolineando l’inutilità, la gravosità e la inefficacia dei trattamenti in questione, ma soprattutto la eccezionalità dei mezzi adoperati.

Il Codice di Deontologia Medica all’art.16 recita: “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita” mettendo in evidenza invece l’inefficacia in relazione all’obiettivo beneficio per il paziente.

Anche la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva ) si esprime dichiarando: “Quando la prosecuzione dei trattamenti rappresenta una ostinata rincorsa verso risultati parziali senza una utilità effettiva per la prognosi e la qualità della sopravvivenza del paziente, essa si configura come 'trattamento inappropriato per eccesso' (comunemente definito come 'accanimento terapeutico')

Tra le tante, infine riportiamo una definizione citata dal Movimento per la vita italiano secondo la quale con accanimento terapeutico si deve intendere l’”ostinazione “futile” a proseguire terapie, che si sono dimostrate inutili o sproporzionatamente gravose per il malato, per il fatto che non migliorano la sua condizione né impediscono la morte per un tempo ragionevole, ma solo prolungano di qualche tempo la vita, imponendo all’ammalato gravi sofferenze”. I concetti sono più o meno quelli espressi dal Comitato Nazionale per la Bioetica ma viene sottolineata la “futilità” del trattamento, intesa come l’impossibilità di prolungare la vita per un tempo ragionevole, ma al contrario di farlo solo per un breve tempo durante il quale il paziente è esposto a gravi sofferenze.

Ora, se è vero che non esiste una definizione condivisa di futilità del trattamento, e, a maggior ragione, una definizione normativa e giuridica di che cosa debba essere considerato “accanimento terapeutico”, è pur vero che il consenso intorno al concetto generale che esso non debba essere consentito è estremamente ampio. In tal senso citiamo ancora l’ordinanza del Tribunale di Roma del 1996: “il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione Europea”, essa riassume alcune delle fonti più autorevoli di questo consenso.

Perfino la Chiesa Cattolica, che indiscutibilmente ribadisce con forza la tutela della vita umana in ogni sua forma, si riferisce all’accanimento terapeutico nel Catechismo del 1992: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’’accanimento terapeutico’. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire.” (Catechismo della Chiesa Cattolica §2278), ribadendolo nel Compendio del 2005: “Sono legittimi […] la rinuncia «all’accanimento terapeutico», cioè all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo” (Compendio §471).

In particolare il Codice di Deontologia Medica (ci riferiamo qui all’edizione del 2006 ma l'argomento è affrontato nelle varie edizioni che si sono succedute almeno dal 1998) non si limita a definire e vietare l’accanimento terapeutico, come abbiamo visto nel già citato articolo 16, ma ribadisce la necessità di tutelare in tal senso la persona non in grado di esprimere un consenso valido nell’art. 35 che si occupa, appunto, dell’acquisizione consenso informato, specificando l’opportunità di tenere in considerazione anche volontà precedentemente espresse (“il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”), e torna sull’accanimento terapeutico nell’art. 39, che affronta il tema dei malati inguaribili, sottolineando che: “In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psicofisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita e della dignità della persona” e, in caso di “compromissione dello stato di coscienza il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico”.

Concetti analoghi sono ripresi e sviluppati nei lavori di importanti Società scientifiche e professionali come ad esempio la già citata SIAARTI che raccoglie proprio quei medici specialisti che più spesso si trovano a fronteggiare questi problemi. Sono numerose le dichiarazioni in tal senso nel corso degli anni, rimandiamo alla loro lettura integrale perché sarebbe qui impossibile riassumerne i contenuti frutto di un lavoro continuo ed approfondito e ricchi di spunti di riflessione; basti citare, al fine dell'argomento che stiamo trattando, le “Raccomandazioni finali” nelle quali si afferma: “- E' doveroso non prolungare il processo del morire e adoperarsi affinché nel corso di esso sia attuato un approccio palliativo, - Ogni volontà del malato in merito alle limitazione dei trattamenti espressa per iscritto o verbalmente deve essere riportata in cartella e tenuta nella massima considerazione

Esaminando con attenzione questo breve excursus possiamo notare come siamo partiti dal sottolineare l’assenza di una definizione operativa “oggettiva” di accanimento terapeutico (quali sono gli atti da considerarsi futili o sproporzionati?) per arrivare a definizioni che affiancano all’oggettività (ad esempio: “malattie a prognosi sicuramente infausta” o “compromissione dello stato di coscienza”) un criterio di soggettività, nel prevedere la necessità di tener conto delle precedenti volontà del paziente (sia nell’art. 16 che nel 35 del Codice di Deontologia). La deontologia medica quindi è pronta, anche in assenza di una specifica normativa sul testamento biologico, a recepire le istanze che provengono da direttive anticipate.

 Naturalmente è sempre presente, tra le righe, il dualismo tra la tutela della volontà dell’individuo e quella di un principio ritenuto superiore a tale volontà, tra il principio di autodeterminazione e quello di non disponibilità del bene vita o di quello salute.

Parallelamente è viva, nel dibattito che riguarda questi argomenti, l’ambivalenza tra l’accettazione di principi acclarati ed il timore che tale accettazione costituisca un portone aperto per introdurre principi che , al contrario, acclarati non sono e che a molti risultano del tutto inaccettabili.

 

 

 
Stampa    
     
     
 
   link Riduci
 
Stampa